Omelia per la Messa Crismale 2016

Il vescovo coadiutore ai sacerdoti: « se non c'è uno spirito di servizio lieto e radicale mutuato/accolto dallo Spirito di Cristo si cade nella mestizia della delusione».

1 Carissimi fratelli nel presbiterato, diaconi permanenti, religiose e religiosi, amatissimi cresimandi, laici tutti presenti nella nostra Cattedrale di San Michele, benvenuti a questa Eucaristia speciale dove il segno dell’olio sta al centro dell’azione liturgica. Nella stupenda preghiera consacratoria del Sacro Crisma, tra non molto ascolteremo come il “profeta Davide cantò quest’olio che fa splendere di gioia il nostro volto”. Splendano davvero di gioia i nostri volti in questa mattinata alle porte del Sacro Triduo Pasquale dell’Anno Santo Straordinario della Misericordia.2 L’olio dell’ulivo è nutrimento, è medicina, dà bellezza, allena per la lotta e dona vigore: re e sacerdoti sono unti con l’olio, segno di dignità e di responsabilità, segno della forza che viene da Dio. La parola “cristiani” deriva dalla parola “Cristo” (cfr. At 11,20-21) traduzione greca della parola “Messia”, che significa “Unto”. Essere cristiani vuol dire: provenire da Cristo, appartenere a Cristo, all’Unto di Dio. L’olio di oliva è simbolo dello Spirito Santo di cui è stata compenetrata l’umanità di Gesù e che effuso su Gesù Cristo da Lui viene a noi, Persona-Dono che ci rende servi lieti della Santa Chiesa. 3 Contemplando lo splendore del corpo crismato della Chiesa dove il sacerdozio di Cristo è partecipato ad ogni battezzato siamo stupiti. Soffermiamoci un poco quest’oggi a considerare una nota qualificante del ministero ordinato, il servizio generoso e lieto: il sacerdozio ministeriale esiste, ben lo sappiamo, a servizio del sacerdozio comune, a servizio di tutto il popolo di Dio. La Messa crismale pur facendoci gustare la nostra identità di popolo di unti, ha però una parola particolare per i ministri ordinati: essa ci parla di Cristo che ci rende partecipi in modo peculiare del suo sacerdozio, della sua “unzione”, donandoci la sua capacità (ἐξουσία) di agire – è l’agere in persona Christi Capitis di Presbyterorum ordinis (2) e di diventare così segni – persona di Cristo Capo, Buon Pastore e Servo. Benedetto XVI per dare forza e chiarezza a ciò ha voluto cambiare il testo del can. 1008 del Codice di Diritto Canonico e così oggi risuona: “con il sacramento dell’ordine per divina istituzione alcuni tra i fedeli, mediante il carattere indelebile con il quale vengono segnati, sono costituiti ministri sacri; coloro cioè che sono consacrati e destinati a servire, ciascuno nel suo grado, con nuovo e peculiare titolo, il popolo di Dio” (Benedetto XVI, Lettera Apostolica in forma di motu proprio Omnium in mentem, 26/10/2009). 4 Questa capacità di agire in persona Christi Capitis è finalizzata alla gloria di Dio Padre e “tale gloria si dà quando gli uomini accolgono l’opera di Dio realizzata in Cristo e la manifestano in tutta la loro vita” (PO 3); il servizio del prete consiste essenzialmente nel personificare Gesù Cristo Capo e Buon Pastore, al servizio di Dio e del suo popolo, al servizio della sua cristificazione. “Così a immagine del Buon Pastore, il prete è uomo di misericordia e di compassione, vicino alla sua gente e servitore di tutti. Questo è un criterio pastorale che vorrei sottolineare tanto: la vicinanza. La prossimità e il servizio, la prossimità e la vicinanza!…(Francesco, Discorso al clero romano 2014) .  5. Servi della santificazione, educatori alla santità. Attraverso la triplice dimensione dell’unico servizio e dell’unica missione di Cristo, i presbiteri realizzano la ri-presentazione della forza trasformatrice di Cristo Maestro, Profeta e Sacerdote ed educano il Corpo crismato nella crescita, fino alla piena maturità di Cristo. É la “diaconia” di Cristo il principio cristologico costitutivo ed esemplare della ministerialità nella Chiesa (cfr. Nota introduttiva della CEI al Rito di ordinazione del vescovo, dei presbiteri e dei diaconi 16.04.1992). Gesù è il “Servo di Dio”, questo titolo messianico, come la sua servizievole missione salvifica, ha caratterizzato dal principio alla fine tutta l’esistenza storica di Cristo, il Figlio di Dio incarnato. Servo e servizio sono parole che sintetizzano tutta la sua missione di salvezza e Gesù è così modello fontale del servizio che deve caratterizzare l’esistenza dei suoi discepoli e quindi specificatamente dei suoi ministri ordinati. “Io sto in mezzo a voi come colui che serve” (Mc 10,45). Ricomprendiamoci dunque alle origini: questa sera, nella Messa in Coena Domini, rievocheremo il servizievole simbolico gesto di Gesù della lavanda dei piedi ai suoi apostoli (Gv 13, 6-9); Gesù compie un gesto vietato, in quel tempo, dal giudaismo anche a un servo giudeo e riservato solo ad uno schiavo pagano, un gesto indegno tanto più d’essere compiuto da un rabbi giudaico. É un gesto servile che è annientamento e lo si comprende in profondità solo se si tiene conto che colui che lo compie è il Messia stesso: “esercitò l’ufficio non di un servo del Signore Dio, ma di un servo pagano” (S. Agostino, In Ioan, Ev. 55,6). Siamo invitati a quella cena. Siamo invitati a ricomprenderci come prosecutori del servizio d’amore di Gesù all’umanità perché splenda di letizia il suo volto e spanda il profumo di una vita santa. 6 Il vescovo e il presbitero “esistono per”, sono costitutivamente, pro-esistenze, e la diaconia è il segreto profondo del loro essere. Vivere in Cristo, in piena sintonia con il suo servizievole sentimento profondo, significa realizzarsi in unità di vita (cfr PO 14). La verità del prete e del suo ministero, l’unità della sua vita, si realizza nell’accogliere il suo essere come pro-essere, come servizio, illuminando così il perché – come Gesù- chiarendo il “con chi“- il vescovo e il presbiterio- e ispirando il “per chi” egli è chiamato a vivere – i fratelli. 7 Pro-esistenza, è un termine, mutuato dalla psicologia, dall’esegeta Heinz Schurmann per descrivere il sentimento fondamentale del Cuore di Gesù: significa esistere come dono, come oblazione, come auto-dedizione; tutto quello che Gesù fa, trova il suo adempimento nel compito che lui stesso è. “Che ce ne facciamo dei compiti che riempiono le nostre giornate e che ci affannano se non realizziamo questo unico compito che noi stessi siamo. Il nostro egocentrico fissarsi al sé perverte egoisticamente un po’ tutti i nostri compiti, capovolgendo il nostro centrifugo compito di servizio in un centripeto servilismo all’io” (Cf. H. Schurmann, Regno di Dio e destino di Gesù, Milano, 1996, p. 127 ss). Se ci specchiamo nel sentimento fondamentale di Gesù dimentico di sé, scorgiamo sotto il trucco o la maschera il nostro volto egoisticamente sfigurato. Ciascuno di noi è in modo profondo radicalmente egocentrico, “incatenato all’io”, abbiamo un cuore incurvato in se stesso cor incurvatum in seipsum (S. Agostino). Siamo invitati a prendere il largo! Altrimenti avanza la delusione! Servi per amore lieti o schiavi delusi e mesti del nostro Io! 8 La deriva drammatica del cristiano-prete che è sacerdote dell’Io è la delusione mesta. La parola delusione deriva dal latino de e ludere, giocare. L’incurvato, chi non pro-esiste, chi non serve per amore, prima o poi incontra il demone della delusione e lo spirito di mestizia (cfr Is 61) che è a capo di una legione di sentimenti negativi. Il de-luso è colui che si pone fuori dal gioco. Troppi di noi, vescovo compreso, si pongono a volte “fuori dal gioco”; e si lasciano sopraffare dallo spirito di mestizia; grandi ideali, coscienza d’ essere chiamati ad un’alta missione, aspirazioni personali da realizzare insieme alla propria vocazione di prete, attese da parte della comunità: sono tutte ipoteche pesanti che nessuno al mondo e nessuna esistenza è in grado di soddisfare in pienezza. Abbiamo aspettative irrealistiche e se non c’è uno spirito di servizio lieto e radicale mutuato/accolto dallo Spirito di Cristo si cade nella mestizia della delusione, si “esce dal gioco”. Variegate sono le possibili delusioni del prete: delusioni sulla propria persona, per la perdita dei primi slanci ed entusiasmi, per la presa di coscienza delle nostre capacità limitate, per la sensazione di non essere all’altezza della situazione, per essere vulnerabili in un’agire pastorale in cui si devono mettere in conto gli insuccessi; delusioni che derivano dal desiderio frustrato di comunione, di amicizia: né la comunità e nemmeno il presbiterio si rivelano sempre luoghi in grado di assicurarci quella protezione, quel calore, quella comunione di cui sentiamo urgentemente il bisogno; delusioni per i mancati riconoscimenti; delusioni quando non riusciamo a capire se importiamo ancora a qualcuno e se il lavoro che stiamo facendo è riconosciuto, apprezzato; delusioni derivanti dall’atteggiamento del vescovo e dei suoi diretti collaboratori: “nessuno si interessa a me”. E’ da queste delusioni che nascono le lamentele, le recriminazioni, le critiche continue, i brontolii e le mormorazioni e qualche volta la calunnia. Nessuno si stupisce. Queste lamentele fanno parte della vita e contrappuntano l’esistenza e le professioni di ogni uomo. Si tratta solo di capire come fronteggiarle da cristiani: spesso si rifugge in certe manie, in certi surrogati, ci si rassegna alle malattie di cui si soffre o si cova il vittimismo o una sorda protesta e un malinconico risentimento; si guarda al passato con nostalgia paralizzante. Dell’aspettativa è figlia la delusione, più alte sono le aspettative, più dura e mesta è la delusione. Uscire dal gioco equivale a lasciarsi sopraffare dallo spirito di mestizia e proporre un volto di chiesa che non risplende. Il servizio d’amore lieto e fino alla fine vissuto in Cristo Gesù, è l’antidoto sicuro che ci libera dallo spirito di mestizia e disegna cammini luminosi di santità. L’unzione ci penetri e ci santifichi, “perché liberi dalla nativa corruzione”, conformati all’immagine del Figlio, rendiamo testimonianza di fedeltà e di un servizio d’amore generoso e lieto e spandere così il profumo di una vita santa! Amen.
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